La sconfitta di Draghi e il Golpe di Davos

StoriaSegreta, 31 gen 2022

Il 29 gennaio 2022 è una data che potrebbe passare alla Storia.
La mancata elezione di Mario Draghi alla Presidenza della Repubblica Italiana ha del clamoroso perché era stata preparata dalle oligarchie finanziarie mondialiste da anni e costituiva uno dei punti cardine del Golpe di Davos in atto.
Immaginiamo lo sgomento di Klaus Schwab (da poco ricevuto a palazzo Chigi il 22 Novembre 2021)[mia nota], coordinatore e animatore del Golpe, nell’apprendere la notizia.

Ancora una volta l’Italia si è ritrovata a essere al centro dei destini del mondo e, ancora una volta, il suo comportamento sfuggente e ingestibile, alla ’italiana’ insomma, ha prodotto un serio imbarazzo alle oligarchie mondialiste.

L’inaudita sconfitta è stata però dovuta a un insieme di circostanze.


In primis si è trattata di una sconfitta personale di Mario Draghi stesso. Il suo comportamento da ‘banchiere centrale’, spocchioso, irrispettoso delle prerogative del Parlamento, dittatoriale come se tutto gli fosse dovuto, ha irritato la grande maggioranza dei peones che, nel bene e nel male, quel parlamento lo compongono. La buvette della Camera era piena di commenti sarcastici all’indirizzo di presidente del Consiglio in carica additato addirittura come ‘nemico personale’.
Per la maggioranza dei grandi elettori il motto era: chiunque fuorché Draghi. Con buona pace di Goldman Sachs e accoliti.


In secondo luogo il suo comportamento inutilmente estremista nella gestione della pandemia gli aveva già alienato molte simpatie. Questo blog aveva già sottolineato (qui) che il governo Draghi verrà ricordato principalmente per la delirante scemenza che egli stesso pronunciò il 22 luglio 2021:
L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire, sostanzialmente.
Non ti vaccini, ti ammali, muori. Oppure fai morire.
Non ti vaccini, ti ammali, contagi, qualcuno muore’.

Forse il Presidente del Consiglio si sarà già amaramente pentito di tale improvvida esternazione e delle continue forzature a favore di una campagna vaccinale ormai in clamoroso fallimento ma il danno era fatto.


In terzo luogo la sua auto-candidatura alla Presidenza della Repubblica durante una conferenza stampa del 22 dicembre 2021 in cui, praticamente, diceva: ‘il mio lavoro è finito, adesso andrò al Quirinale’, aveva irritato non poco quei politici che conservano ancora un vago ricordo di quello che l’Italia era stata prima del suo declassamento a colonia della finanza mondialista.
Ma l’ultimo errore è stato fatto quando ha manifestato la sua estrema contrarietà alla candidatura Casini, facendo sapere che, se Casini fosse stato eletto, lui si sarebbe dimesso immediatamente da Presidente del Consiglio.
Casini, che a detta di chi gli è vicino, ‘ci è rimasto molto male’, non ha avuto altra scelta che rinunciare alla candidatura, sapendo però che così avrebbe reso inevitabile la riconferma di Mattarella e il siluramento di Draghi stesso, il quale invece evidentemente non lo aveva ancora capito.


Il 2-0 dei vecchi democristiani sulla spocchia dei banchieri centrali deve farci riflettere.

D’altra parte che l’uomo fosse fatto così lo si era già capito dalla lettera che aveva inviato il 5 agosto 2011, come presidente entrante della BCE e a doppia firma con l’uscente Jean Claude Trichet, a Berlusconi e che comportò le dimissioni del governo di centro destra.
Lì c’era scritto, senza mezzi termini, che il governo di un paese sovrano doveva obbedire ai diktat della BCE, senza se e senza ma. E, per favore, con sollecitudine se no ci arrabbiamo.


Ultimo ma non ultimo, il trasferimento di Draghi al Quirinale avrebbe comportato un serio rischio di crisi di governo e conseguenti elezioni anticipate facendo così sfumare per i peones parlamentari gli ultimi mesi di stipendio e il successivo vitalizio.


Alla ‘italiana’ quindi, il diktat dei Golpisti di Davos questa volta è stato ignorato o per dirla nobilmente il Parlamento ha riacquistato la sua centralità’ e Draghi ha visto sfumare la sua elezione al Quirinale, da dove avrebbe potuto osservare i disastri da lui stesso provocati in trent’anni di attività da una posizione di assoluta impunità.

Insomma Mario Draghi è stato vittima in primis di una sua scarsa attitudine a gestire i rapporti politici ma i motivi del disastro non sono solo questi.

Vi è stata infatti anche una scarsa compattezza delle elite che lo sostenevano, cosa accuratamente silenziata da tutto il mainstream, ma che era apparsa in tutta la sua evidenza quando, a dicembre 2021, l’Economist e il Financial Times, cioè i giornali dei Rothschild-Elkan, avevano cominciato a sostenere che preferivano che Draghi rimanesse a Palazzo Chigi.
Il Presidente del Consiglio era stato costretto a un irrituale e precipitoso incontro con Jonh Elkann, il 20 gennaio 2022, per dirimere la questione, il cui esito non è stato evidentemente positivo.
Il ramo francese della finanza internazionale aveva infatti in animo di fare un blitz: piazzare al Quirinale una donna a loro molto vicina, Francesca Belloni, già insignita della Legion d’onore, la più alta onorificenza della Repubblica Francese e attualmente direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza.
Il blitz è fallito, durante una drammatica nottata, per la ‘insipienza’ di Salvini e Conte, che lo avevano comunicato al mondo la sera precedente, ‘insipienza’ non si quanto voluta. Chi vuole organizzare un blitz non può pensare di dirlo a tutti il giorno prima perché o è proprio un incapace o lo vuole far fallire.
Naturalmente l’esternazione di Salvini e Conte ha scatenato un’irata reazione della componente ‘atlantica’ del Parlamento che, guidata da un furioso Matteo Renzi, ha avuto buon gioco a demolire l’improvvida candidatura in men che non si dica.

Ridotta nei sui spazi l’irritante componente francofona non è restato che rassegnarsi a uno 0-0 con la riconferma di Mattarella, dopo il siparietto casiniano.

Ma è stato veramente un pareggio tra le varie componenti?

Da una prima analisi sembrerebbe proprio di no.

La sconfitta di Draghi è infatti definitiva. A chi, fin da subito, adombrava la possibilità che Mattarella potesse costituire solo una presidenza a termine, alla Napolitano bis, tenendo caldo il posto per un anno o poco più, è stato lo stesso Mattarella a rispondere per le rime: il mio mandato è pieno e per sette anni. Punto.

Così si comprendono meglio le ragioni del suo insistente ‘chiamarsi fuori’ degli ultimi mesi, il suo comperarsi casa, il suo trasloco: ‘Io non faccio il supplente di nessuno, se mi volete, e mi dovete volere a furor di popolo, ci posso anche stare ma con mandato pieno’. Fine dei giochi.

Ma non vi è solo la schiena diritta del vecchio democristiano a chiudere le porte a Draghi: tra un anno si vota e la maggioranza che uscirà dalle urne sarà completamente diversa dall’attuale. Con Fratelli d’Italia sopra al 20% (e forse più), l’entrata in Parlamento di una consistente pattuglia di no-vax, i danni che la politica draghiana ha fatto sulla pelle dei cittadini, la chiusura delle piccole imprese, la disoccupazione e quant’altro, pensare che vi siano ancora i voti per eleggerlo al Quirinale, fra un anno o due, sembra davvero una pia illusione.

No, Draghi non diventerà mai più Presidente della Repubblica, e questa è una gran buona notizia per tutti gli italiani.

Quindi cosa succederà?

Anche qui la versione dei Golpisti di Davos è: ‘niente, cosa volete che succeda? Draghi, Mattarella e Amato alla Corte costituzionale, siamo blindati. Meglio di prima’.
Può essere e forse, se il mondo finisse ai confini dell’Italia, potrebbe anche essere la cosa più probabile.

Ma il mondo è grande.
In particolare l’Occidente si sta dividendo in due tronconi in modo netto. Il Golpe vaccinista è fallito negli Stati Uniti, dove Biden ha ordinato di obbedire a Big Pharma e più della metà degli Stati americani lo hanno ignorato. La Corte costituzionale gli ha dato addirittura torto in merito alla obbligatorietà degli pseudo-vaccini, il che lo ha costretto a ingranare un’umiliante retromarcia simile ad una resa.
Il pupillo di Schwab, il primo ministro canadese Justin Trudeau, il 30 gennaio 2022, è stato costretto a fuggire ignominiosamente, davanti al popolo in rivolta e ai TIR che minacciavano la sua capitale.
Boris Johnson, nonostante le minacce personali e gli attacchi della stampa, ha varcato il Rubicone: in Gran Bretagna l’emergenza epidemica è finita, niente più restrizioni, niente più Green Pass, niente più controlli sui diritti dei cittadini.
Lo stesso accade in Irlanda, in Spagna e nei paesi scandinavi.

Insomma una larga parte del mondo, essenzialmente collocata nell’area ‘atlantica’, si è ribellata al Golpe di Davos. Restano in mano ai golpisti, per ora, la Germania, l’Austria e la Francia, dove cominciano però a sentirsi scricchioli sinistri.

E l’Italia? Anche stavolta la sua collocazione geopolitica sarà decisiva.
Con un Draghi alla Presidenza della Repubblica, palesemente schierato con Schwab, l’Italia sarebbe diventata un baluardo del Grande Reset.

Proprio qui si sarebbe passati, per primi, dalla Società della Sorveglianza alla Società del Controllo. Tutte le libertà costituzionali sarebbero state concesse solo ai ‘bravi cittadini’, tramite un Green Pass super-mega-rafforzato che avrebbe incluso anche le opinioni politiche, e ‘senza il quale non si sarebbe potuto né vendere né comprare’.
Senza il Green Pass, non si sarebbe potuto neppure votare, come è già successo a Sara Cunial. Un deputato della Repubblica è stato privato della possibilità di votare per la Presidenza della Repubblica senza che nessuno abbia detto nulla!
La società orwelliana avrebbe avuto nell’Italia di Draghi la sua punta di diamante e questo per i prossimi sette anni.

Lo scampato pericolo deve farci tirare un bel respiro di sollievo.

Che farà Draghi adesso?
Si immolerà sull’altare del più grande esperimento della Storia, come ultimo soldatino a difendere un Golpe Mondiale ormai fallito?

È lecito dubitarne.

Nei prossimi mesi la crisi energetica, la crisi economica, l’esplosione del debito, l’aumento della tassazione, il calo di Wall Street, l’inutilità conclamata dei vaccini e il dramma dei loro effetti collaterali, renderanno la situazione incandescente.

I peones parlamentari, una volta assicurata la loro pensione, cominceranno a ‘tirargli le monetine’ non appena entrerà in Parlamento, altro che Governo dei Migliori. Le indagini della magistratura potrebbero addirittura toccarlo personalmente. Costretto a difendersi in un tribunale dall’accusa di strage? Lui, il Migliore, osannato, solo un anno fa, come il Salvatore della Patria dalla compiacente stampa di regime?

Le stesse divisione geopolitiche emerse tra la finanza europea e quella americana non lo consiglieranno forse di ritirarsi in buon ordine?

Anche se il fattore decisivo sarà probabilmente un altro: sullo sfondo comincia a delinearsi la minaccia vera, i Patrioti americani.

Abbiamo già visto che il Golpe mondiale architettato dai banchieri, da Davos dalla finanza mondialista, dal Deep State americano e da un Europa a trazione tedesca è fallito perché il popolo americano ha resistito. Biden è in crollo verticale, Trump è di nuovo in rampa di lancio, la Gran Bretagna ha già fatto la sua scelta. Il Canada è alla guerra civile.

Se l’Italia, come ama fare e ha fatto altre volte nella Storia, scegliesse la libertà?

Se i vari peones, ma anche i Casini, i Renzi e i Mattarella, si trovassero di fronte una America pronta ad aiutare gli italiani contro le ingiustizie che hanno dovuto subire?
Se comparisse un’America non più succube del Deep State, ma che esprima i valori di libertà che le sono propri da sempre, cosa farà l’Italia?

Sceglierà la prigione europea, a trazione germanica, la sottomissione a una dittatura dei banchieri che stampano il denaro dal nulla e poi ne pretendono la restituzione con gli interessi, che desiderano il controllo totale su tutti i movimenti dei cittadini, che concedono qualcosa solo a chi ubbidisce loro ciecamente?

O preferirà invece seguire la nuova America, quella libera, quella del popolo, che ha contribuito così tanto al progresso del nostro paese?

Se tra un anno dovesse concretizzarsi una saldatura tra le opposizioni italiane dietro a qualche uomo, con appoggi dalla parte giusta dell’oltreoceano (tipo, per non far nomi, Giulio Tremonti), che terrà conto anche delle sacrosante richieste di ripristinare le libertà costituzionali tipiche dei no-vax, che ne sarà dei banchieri centrali che fossero ancora inopinatamente a capo del governo di un paese da loro distrutto?

Non è forse meglio per Draghi accettare, in tempi brevi e di buon grado, un posto alla Banca Mondiale, che permetta di fuggire dal paese che ha contribuito così tanto a distruggere e che lo ha ripagato con tanta ingratitudine, opponendosi alla sua naturale elezione al Quirinale?
Una fuga ben orchestrata non sarebbe più onorevole che restare in trincea con scarse prospettive di vittoria?

La risposta è facile: forse non sarebbe tanto onorevole ma è l’unica cosa che resta da fare: una ritirata strategica è sempre meglio di una fuga precipitosa.

Draghi quindi ci abbandonerà in tempi brevi, dichiarerà esaurito il suo compito e si trasferirà in un Iperuranio dall’alto del quale potrà osservare, impunito, l’evolversi degli avvenimenti e magari, ci propinerà anche i suoi preziosi consigli, sotto forma di lettere intimidatorie che ci illumineranno sulle volontà dei ‘mercati’.
La sorte degli uomini che, poco previdentemente, si sono fidati della sua leadership, come Speranza, non lo riguarderà.

La battaglia per le libertà è ben lungi dall’essere vinta, intendiamoci, ma la situazione di oggi è migliore di quella di ieri e la sconfitta delle oligarchie finanziarie, con la mancata elezione di Draghi al Quirinale, rischia di segnare lo spartiacque tra il ‘prima’ e il ‘dopo’.



Dubbi leghisti, veleni giallorossi. Draghi affonda nel governo-pantano.

Giorgetti evoca le dimissioni, poi vede il premier con Salvini: «Serve una fase nuova». Tra le scorie post Colle ci sono anche i dissapori tra dem e M5s. E Mr Bce, ora prigioniero a Palazzo Chigi, pianifica la fuga in Europa

La Verità – Daniele Capezzone, 30 gen 2022

«Io via? È un’ipotesi». Per larga parte della giornata di ieri, l’eco della battuta amara di Giancarlo Giorgetti è stata assordante, e ha lasciato presagire conseguenze traumatiche anche all’interno della compagine di governo. E sempre ieri, Giorgetti, lungi dallo smentire, ha aggiunto a chiare lettere che «serve una nuova fase dell’esecutivo per affrontare quest’anno». Poco dopo, lui stesso e Matteo Salvini hanno formalmente chiesto un incontro al premier. È evidente che la Lega, che già da mesi soffriva molte scelte del governo, ora ha il dovere e l’esigenza di aprire una vertenza politica, di chiedere una svolta profonda sui punti chiave del programma di governo. Altrimenti, i prossimi mesi diverrebbero un’autolesionistica donazione di sangue per il Carroccio.

Inutile girarci intorno. La vicenda del Quirinale ha messo in circolo veleni ovunque, in tre direzioni: prima all’interno di ciascun partito, poi tra partiti teoricamente alleati, e infine all’interno di una squadra di governo in cui tutti sono momentaneamente costretti a rimanere insieme, ma nessuno si fida più di nessuno. Si pensi solo al rapporto tra Enrico Letta e Giuseppe Conte dopo il lancio contestatissimo, l’altra sera, della candida tura di Elisabetta Belloni, secondo uno schema che vedeva di nuovo convergenti M5S e Lega. Dentro il Pd, sono bastate poche decine di minuti per scatenare l’inferno davanti a questa prospettiva. Per sovrammercato, non è certo una buona notizia per molti nemmeno il rafforzamento oggettivo dei due ministri più contestati del governo, eppure da sempre considerati più vicini a Sergio Mattarella, e cioè Roberto Speranza e Luciana Lamorgese. Destino curioso, il loro: più hanno fatto danni, e più diventano inamovibili.

A ritroso, molti problemi nascono dalle stesse modalità con cui Mario Draghi e lo stesso Mattarella, un anno fa, composero la squadra ministeriale, selezionando correnti e profili all’interno dei diversi partiti, e non di rado insidiando il ruolo dei leader, o comunque alimentando sospetti. La cattiva performance del governo ha fatto il resto. La gestione pandemica è stata catastrofica, in totale continuità, attraverso la figura di Speranza, con la linea ultrachiusurista del precedente esecutivo Conte. Su questo tema decisivo, la delegazione ministeriale leghista ha spesso deluso le aspettative della base del partito, e, facendo sponda con i governatori, è parsa più sensibile alla linea di Speranza che a quella di Salvini.

I ministri di Forza Italia hanno fatto ancora peggio, offrendosi come sostenitori entusiasti delle politiche del ministro della Salute.

Discorso analogo per la performance economica dell’esecutivo: la legge di bilancio è stata deludente, con tagli di tasse omeopatici, impercettibili per l’economia reale, e un assurdo rifinanziamento del reddito di cittadinanza. Proprio Draghi è il primo a essere ben consapevole di questo bilancio tutt’altro che lusinghiero, e non a caso – dal la famigerata conferenza stampa del 22 dicembre – ha tentato di tutto pur di lasciare Palazzo Chigi.

Anche perché l’ex governatore Bce sa che il 2022 sarà un anno durissimo. Altro che «ripresa» e «Italia locomotiva», come va raccontando qualche ministro in costante training autogeno: le previsioni di crescita del Pil rischiano di rattrappirsi e il prezzo pagato dalle piccole imprese al lockdown strisciante in corso è devastante, in termini di chiusure. Per non dire dei rincari e dell’inflazione, destinati ad accompagnarci molto a lungo. Draghi sa bene – anche politicamente – che la stessa legislatura è esaurita, o addirittura esausta, e che ogni dossier politico sarà solo fonte di divisioni e polemiche preelettorali.

  • Primo esempio? Nelle prossime settimane ci saranno da convertire tre decreti legge (quelli del 24 e del 29 dicembre e quello del 5 gennaio) sulla gestione pandemica: e la maggioranza non potrà che litigare sull’alleggerimento (da alcuni sollecitato, da altri osteggiato) delle misure di restrizione.
  • Secondo esempio: a fine febbraio arriva nell’Aula della Camera la delega fiscale, con la vera e propria bomba a orologeria della riforma del catasto (che porterebbe con sé, dal 2026, un probabilissimo aumento di un’imposizione fiscale sugli immobili già devastante). Anche su quello una lacerazione sarà inevitabile.
  • Terzo esempio: in primavera si intensificherà ulteriormente il via vai di navi di immigrati: come potrà la Lega continuare a subire la linea lassista della Lamorgese? Tutto ciò farà del governo un luogo di conflitti oppure (nella meno traumatica delle ipotesi) di mediazioni al ribasso. Altro che decisionismo.

Al massimo, Draghi potrà cercare di salvaguardare la sua immagine con qualche atto d’imperio, con qualche decreto «forte» da pompare sui media: ma eventuali colpi di mano di questo tipo non potranno che innescare ulteriori fibrillazioni.

E allora? Draghi cerca una exit strategy. La prima opportunità sarebbe salire su un treno europeo: magari ottenendo la presidenza del Consiglio, oggi occupata dal belga Charles Michel, e in prospettiva mettendosi in pole position per la successione a Ursula von der Leyen nel 2024.

Altrimenti, se l’operazione non riuscisse? In un quadro di pericolosa riproporzionalizzazione della legge elettorale, il premier potrebbe sperare, nel 2023, in un sostanziale pareggio (o in una non vittoria di uno dei due schieramenti), il che riaprirebbe la strada a un ennesimo esecutivo ibrido. Ma questa – come ognuno comprende – non sarebbe una exit strategy, bensì il tempo supplementare di una stagione da dimenticare. Amarissima per gli italiani, e ora venuta a noia allo stesso Draghi.



Draghi ora torni a lavorare

Il suo tentativo di andare al Quirinale ha bloccato l’Italia. Nei ministeri è tutto fermo

Gli esponenti dei partiti al governo hanno preferito cercare di farsi amico il futuro Capo dello Stato invece di mandare avanti i progetti

Il Tempo – Luigi Bisignani, 30 gen 2022

Caro direttore, il Quirinale può attendere. Da perfetto studente dai gesuiti il premier Mario Draghi ha messo il cappello sulla conferma di Sergio Mattarella al Colle. Pensare che è stato proprio lui, da Palazzo Chigi, a provocare questo caos, dopo aver tentato per mesi di scappare al Quirinale e, pur di realizzare il suo disegno, a piegare il Governo alla sua ambizione.

Sono due le date indiziarie del suo fallito tentativo di fuga da piazza Colonna: il 23 settembre, quando in una riunione collegiale con i suoi ministri «migliori» ha capito che i progetti del Pnrr non sarebbero mai andati in porto, e il 27 ottobre quando, infastidito e risentito, ha abbandonato platealmente l’incontro con i sindacati.

In entrambe le circostanze ha capito che quel lavoro non era fatto più per lui. Può parlare con Biden, certo, ma non con Landini. La sua lunga campagna elettorale ha da quel momento focalizzato il Governo sull’ascesa del premier, trascurando così i problemi del Paese e pensando, addirittura, di poter indicare non solo il suo successore a Palazzo Chigi, ma che quest’ultimo potesse essere il modesto ministro Franco, soprannominato da molti «Alexa».

I ministri tecnici, e soprattutto quelli di Forza Italia (Gelmini, Carfagna, Brunetta), sono stati più impegnati a farsi amico il futuro presidente della Repubblica piuttosto che affrontare i problemi veri e ricordarsi della propria storia politica. Ognuno di loro ha cercato di piazzare in posti chiave tanti piccoli Bocchieri, oscuro dipendente della Regione Lombardia. Del Pnrr, Draghi ha disegnato la cornice, ha stabilito la governance, ma nessuno può negare che, a parte i progetti pronti da anni di Fs e Anas, tutto sia fermo. I ministeri sono impallati da strutture «deprofessionalizzate». Qualche tempo fa, in una riunione di verifica un direttore generale di lungo corso è sbottato: «Guardate qui. Voi che dovete controllarci siete in quindici, noi che dobbiamo scrivere bandi e decreti siamo in tre». Così non si può certamente andare avanti: il ministro Cingolani, per fare un esempio, si muove ancora da responsabile della ricerca di Leonardo, un’azienda che dipende molto dal capo delle Forze Armate, e anche per questo ha preferito tenere il mantello a Draghi piuttosto che affrontare con interventi concreti il problema strutturale dell’energia elettrica.

Si è preferito buttare 8 miliardi nel populistico ed inutile sostegno alle famiglie bisognose, funzionale solo ad ottenere i titoli dei giornali, piuttosto che fare investimenti sul lato dell’offerta.

Colao si è autosommerso, attento a non scontentare nessuno con le sue scelte, ha scritto gare per il Pnrr di impossibile comprensione e partecipazione e ha rimandato ogni decisione sugli assetti di Tim e sulla rete unica. Anzi, ora sta addirittura pensando a chi dare la colpa tra Invitalia e Infratel, quando le cervellotiche gare sulla fibra inevitabilmente andranno a vuoto.

Mentre Giancarlo Giorgetti medita la fuga, il ministro Giovannini ha nominato l’ex Dg di Bankitalia, Salvatore Rossi, coordinatore della commissione che dovrà redigere il nuovo Piano generale dei trasporti e della logistica.

Il Mef è ormai diventato una succursale dell’ufficio del professor Francesco Giavazzi, la cui luce avvolge gli amici degli amici del premier e arriva sino agli stretti collaboratori, tanto che si narra che la combriccola del Mef vicina al capo di gabinetto Chinè non gestisca le partecipazioni nelle azien-de di Stato, ma se ne senta quasi proprietaria.

Si narra che l’amministratore delegato di Mps, Bastianini, sia stato convocato a via XX Settembre ed abbia trovato ad attenderlo per chiedergli le dimissioni un vero e proprio plotone di esecuzione composto dal Dg del Tesoro Rivera, il capo di Gabinetto Chinè e il fido Giansante. Motivazione? Nessuna. Colpevole solo di aver portato la banca in utile ma, soprattutto, di essere stato indicato dal Governo Conte. Insomma, non appartiene alla schiera degli eletti del Supremo in caduta libera dal Colle. E pensare che Rivera aveva detto circa un mese prima alla commissione Finanze della Camera: «Non ci sono piani per rimuovere l’Ad di Mps».

Ma peggio di Draghi si è comportato il centrodestra. Ne è immagine plastica lo scontro di venerdì notte tra Giorgia Meloni, con una ritrovata vis dei tempi del Fronte della Gioventù, e Antonio Tajani, allora giovane monarchico, che per non prendersi a pugni sono stati separati dai testimoni.

La risposta di La Russa alla domanda «Esiste il centrodestra? Ma quale centrodestra?» rappresenta il disastro provocato da una classe dirigente totalmente inadeguata rispetto ad un popolo che è ancora maggioranza nel Paese. Una guerra fratricida sotterranea da mesi, con tante piccole Ronzulli, oggi deflagrata alla luce del sole che ha bruciato in una folle corsa quelle poche personalità di centrodestra credibili anche a livello internazionale da mettere in campo. Il mancato reale appoggio a Berlusconi; la corsa della Meloni a creare difficoltà a Salvini piuttosto che a puntare ad un risultato comune, come dimostra il non aver tentato, almeno per un altro giro, la candidatura di un galantuomo liberale come Guido Crosetto; l’aver imposto di contarsi realmente sulla Casellati; il capo della Lega che, correndo dietro al diavolo e all’acqua santa, ha dimostrato di non avere né strategia né capacità di leadership. Un centrodestra, dunque, che può dire addio al sogno del Quirinale.

Ma visto che da ogni male può venire un bene, forse è l’occasione perché nasca un nuovo centro con quel che resta di Forza Italia, con Renzi e con gli altri gruppi centristi. Quanto a Draghi, speriamo che ritorni a fare veramente il SuperMario della prima ora perché lui, e solo lui, ancora oggi è l’unico vero argine fisico che ci è rimasto contro lo spread e per mettere ordine ai fondi del Pnrr totalmente in rotta di collisione con l’Europa. Per finire, viva Mattarella: bene, bravo, bis. Tomasi di Lampedusa, con il suo Gattopardo, sarebbe davvero fiero di lui.

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