L’ideologia di Draghi: «l’ordine esistente»

Tratto da “Eclissi di Costituzione” di Tomaso Montanari, Chiarelettere editore, apr 2022

La risposta alle mie critiche a Mario Draghi e al suo governo è spesso sul piano del metodo: avrei l’imperdonabile colpa di essere «ideologico» (a dirmelo, in televisione, è stato il direttore de «la Repubblica»). Chi è d’accordo con il governo sarebbe «pragmatico», cioè obiettivo; chi si oppone sarebbe appunto «ideologico», e cioè propagandistico.

Questo uso della parola «ideologia» è, già di per sé, sintomatico del ribaltamento avvenuto negli ultimi decenni. Nel linguaggio filosofico marxista, quello che l’ha più largamente usata, «ideologia» significava «l’insieme delle credenze religiose, filosofiche, politiche e morali che in ogni singola fase storica sono proprie di una determinata classe sociale […] in quanto tale, l’ideologia, lungi dal costituire scienza, ha la funzione di esprimere e giustificare interessi particolari, per lo più delle classi proprietarie ed egemoni sotto l’apparenza di perseguire l’interesse generale o di aderire a un preteso corso naturale» (così, sinteticamente, il Vocabolario Treccani). È proprio in questo senso che è davvero, e profondamente, ideologica la posizione di quelli che sostengono lo stato delle cose come una sorta di dogma senza alternative.

Il sostegno a Draghi e al suo governo ha assunto fin dall’inizio toni ultraideologici, addirittura religiosi: i giornali e i giornalisti di sistema l’hanno dipinto come l’uomo della provvidenza, un re taumaturgo capace di risanare il paese con il semplice tocco delle mani. Come succede appunto con le ideologie, nessun dato di realtà è riuscito a incrinare il dogma. Il mito del governo «di alto profilo» (Mattarella dixit) non si è dovuto misurare con i nomi imbarazzanti, a tratti mostruosi, di ministri e sottosegretari. Il mito che si tratti di un governo libero dai partiti non ha risentito dell’evidenza di un condono fiscale e di un avventato governo della pandemia imposti dalla Lega. Il mito di un governo verde (Una «rivoluzione verde», il programma di Draghi per cambiare l’Italia, ha titolato «la Repubblica») non appare scalfito dalla resurrezione di nucleare, inceneritori, ponte sullo Stretto, o da un Pnrr che continua a consumare suolo per grandi opere in buona parte inutili, e dunque dannose. Il mito dell’efficienza mimetica del generale Figliuolo non risente dell’ovvietà per cui le dosi di vaccino ci sono state solo quando gli sono state recapitate, né dell’incredibile caos prima su AstraZeneca e poi nelle regole della quarantena per la scuola, né dell’irresponsabile accelerazione propagandistica che ha portato il governo a benedire gli open day vaccinali delle Regioni per i minorenni. Il mito di un governo che lotterebbe contro le diseguaglianze non si è dissolto nemmeno dopo lo sdegnato «no» di Draghi alla pallidissima proposta di tassa di successione di Enrico Letta, né dopo l’indegna riforma fiscale che dà solo a chi già ha. No: la realtà non esiste, esiste l’ideologia del governo dei Migliori.

Ma c’è qualcosa di più profondo. Questa ideologia non è certo stata messa a punto per sostenere Draghi, anzi è vero il contrario: e cioè che Draghi è l’espressione più autorevole, in Italia, del pensiero unico occidentale che ha condotto il mondo sull’orlo del baratro ambientale, sociale e politico.

«Un’ampia privatizzazione è una grande, direi straordinaria, decisione politica che scuote le fondamenta dell’ordine socioeconomico, riscrive confini tra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante. […] Consideriamo questo processo di privatizzazione accompagnata da deregolamentazione inevitabile, perché innescata dall’aumento dell’integrazione europea: l’Italia può promuoverla da sé, oppure essere obbligata dalla legislazione europea. Noi preferiamo la prima strada.»

Era il 2 giugno 1992, e l’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi celebrava la festa della Repubblica parlando così a bordo del panfilo Britannia, di proprietà della regina Elisabetta.

Ebbene, il Draghi che – quasi trent’anni dopo, secondo il costume della gerontocrazia italica – diviene presidente del Consiglio dei ministri è ancora perfettamente coerente con quella visione e con quello stile retorico, nel quale la manifestazione della consapevolezza dei costi sociali derivanti dalla totale soggiacenza della politica al mercato serve solo da premessa per una dichiarazione di «pragmatismo». Lo schema è sempre quello:

«C’è un costo… ma non ci sono alternative». A dispetto degli infiniti laudatores che lo vogliono keynesiano (l’imbarazzante leggenda dell’«allievo di Caffè», tante volte smentita dai veri eredi morali e culturali del grande economista), Draghi è un sincero e trasparente sostenitore del Tina (There Is No Alternative) thatcheriano, cioè della convinzione che la politica non abbia alcuna possibilità di scartare di lato rispetto al binario unico disegnato dal mercato: perciò il suo approdo a Palazzo Chigi (e, magari tra qualche anno, al Quirinale) segna il tardivo culmine di questa interminabile stagione liberista. Il suo ruolo di commissario rappresenta, anche sul piano simbolico, l’esaurimento della politica e della democrazia italiane: come ben comprende quella metà abbondante dei nostri connazionali che ha sostanzialmente smesso di andare a votare.

Il pensiero unico, di cui Draghi è la più autorevole incarnazione italiana attuale, si riassume nella «fede nel mercato […] ovvero nel fatto che i meccanismi del mercato siano i principali strumenti per realizzare il bene pubblico». Sono parole di Michael Sandel (La tirannia del merito, Feltrinelli 2021), che insegna Teoria del governo a Harvard. Non per caso egli usa una parola che ha a che fare con l’ideologia per eccellenza: «fede». Una fede condivisa, nota Sandel, da tutti i leader e dai partiti del centrosinistra globale, da Clinton a Blair, al nostro Pd. In una pagina che cita esplicitamente anche quest’ultimo, Sandel nota che tale fronte politico, «prima che possa ambire a riconquistare il sostegno pubblico, deve rivedere il proprio modo tecnocratico orientato al mercato di approcciarsi al governo e deve inoltre riflettere su un elemento più impercettibile, ma altrettanto importante: l’atteggiamento verso il successo e il fallimento che ha accompagnato la crescita della diseguaglianza negli ultimi decenni».

L’operazione Draghi punta a evitare proprio questa riflessione, blindando l’ortodossia ideologica: riportare al governo il Pd – e riportarcelo insieme ai populisti che avevano raccolto il consenso contestando l’ortodossia – significa affermare che non c’è nulla da cambiare, nessun errore da riconoscere. Tutti nell’unico ovile possibile: quello del mercato globale.

«C’è dentro quel che serve per andare avanti nell’interesse del paese»: il commento dell’allora segretario del Pd Nicola Zingaretti al discorso di Mario Draghi al meeting di Comunione e liberazione nell’agosto del 2020 fu il primo segno della svolta che si preparava a Palazzo Chigi, e insieme l’ennesima conferma della fine di una sinistra intesa come critica allo stato delle cose. Quel discorso, infatti, era il trito manifesto di una destra moderata: l’epitome del pensiero delle classi dirigenti conservatrici e liberiste che hanno condotto l’Europa e l’Italia su un binario morto.

La funzione di Draghi, e delle élite finanziarie che lo esprimono, era – ed è – difendere a oltranza lo stato delle cose. E quel discorso lo diceva apertamente: per esempio quando condannava il fatto che le giuste critiche alle politiche dell’Unione fossero diventate, «nel messaggio populista, una critica contro tutto l’ordine esistente».

L’ordine esistente, ecco in cosa consiste quella ideologia immanente: nel deificare e perpetuare le cose come sono, i poteri dove e come sono. Un ordine che per Draghi è intoccabile a partire dal suo architrave ideologico: la crescita. È qui che il discorso si faceva scopertamente dogmatico: «Il ritorno alla crescita, una crescita che rispetti l’ambiente e che non umili la persona, è divenuto un imperativo assoluto. Perché le politiche economiche oggi perseguite siano sostenibili, per dare sicurezza di reddito specialmente ai più poveri». È un paradigma perento, ipocrita, smentito dalla realtà: la chimera di una crescita che continui come è ora, ma sia sostenibile sul piano ambientale e sociale. Evidenze scientifiche e sociali escludono che questo sia possibile: l’imperativo assoluto della crescita è un imperativo assoluto al suicidio collettivo. Draghi non parla di eguaglianza, tantomeno di giustizia sociale, ma della necessità di non «umiliare» ulteriormente i poveri, e di non erodere ancora i loro poveri redditi attuali. Nessun cambiamento: la messa in sicurezza dell’ordine attuale, fondato su una insostenibile ingiustizia, cioè sul consumo sfrenato del pianeta e sulla massima diseguaglianza possibile. L’obiettivo è la conservazione degli attuali rapporti di forza che garantiscono i (pochissimi) salvati contro i (tantissimi) sommersi.

Draghi sa bene che «se rimanesse invariata la distribuzione attuale dell’incremento del reddito mondiale sarebbero necessari da 123 a 209 anni per far sì che tutti gli abitanti del pianeta vivano con più di 5 dollari al giorno. Ciò richiederebbe una produzione e un consumo globali 175 volte più elevati degli attuali: un incremento […] incompatibile con i limiti strutturali del pianeta» (Marco Revelli). Già dieci anni fa un finissimo intellettuale socialdemocratico come Tony Judt puntava il dito contro «l’illusione di una crescita senza fine», e oggi la voce profetica di Greta Thunberg grida ai potenti che «le persone stanno soffrendo, stanno morendo. Interi ecosistemi stanno collassando. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E tutto ciò di cui parlate sono soldi e favole di eterna crescita economica».

Draghi è tra i più abili raccontatori di quelle favole. Favole il cui più ascoltato critico si chiama invece papa Francesco, che nella enciclica Laudato si’ ha ribaltato il paradigma, indicando con forza «l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta […] l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso […] la grave responsabilità della politica internazionale e locale […] la proposta di un nuovo stile di vita». Non è un caso che Comunione e liberazione scelga di schierarsi dalla parte opposta al papa: non con la profezia di Bergoglio, ma con lo stato delle cose di Draghi.

Di fronte a questo spartiacque culturale, nemmeno Zingaretti aveva dubbi: egli collocava il Pd con Draghi, non con Francesco. Era un’affinità elettiva.

Annunciando, poco dopo, il suo «piano per le riforme», l’allora segretario del Pd scelse di usare (su Twitter) l’espressione «capitale umano» (che ricorre più volte nel discorso di Draghi): una formula (coniata da un economista tra i più fanatici dell’ultraliberismo della scuola di Chicago) che insieme ad altre (si pensi a «mercato del lavoro») è una eloquente spia lessicale della sudditanza al pensiero unico dominante, completamente introiettato dal Pd. Che non è più nemmeno in grado di mettersi in relazione con l’immaginario corrente alimentato da film, pure assai moderati, come Il capitale umano di Paolo Virzì (2013), che nei titoli di coda spiegava il senso del titolo attraverso la definizione del metodo seguito per calcolare l’indennizzo corrisposto dall’assicurazione di una famiglia di ricchi e spregiudicati industriali un cui membro aveva ucciso, investendolo con un suv, un cameriere che tornava dal lavoro: «Importi come questo vengono calcolati valutando parametri specifici. L’aspettativa di vita di una persona, la sua potenzialità di guadagno, la quantità e la qualità dei suoi legami affettivi. I periti assicurativi lo chiamano il capitale umano». Un modo efficace per far comprendere il senso lato della mercificazione della persona umana suggerito da una espressione come quella: una mercificazione che è insieme ideologia e stato di fatto, e che dovrebbe essere il primo obiettivo polemico di una qualunque sinistra.

Difficile dire cosa possa essere più «ideologico» che continuare a propugnare una crescita infinita in un pianeta finito, e seguitare a difendere un «ordine esistente» già di fatto collassato. Le parole di Sandel sull’ideologia del successo e del fallimento spiegano la criminalizzazione dei lavoratori che ha accompagnato la restaurazione di Draghi al governo: a essere colpevolizzato è chi, ridotto in povertà, riesce a sottrarsi a un «lavoro» schiavistico grazie al reddito di cittadinanza (l’odiato frutto «di sinistra» del populismo al governo). Ancora una volta l’establishment sta dando la colpa alle vittime, invece di accettare e analizzare il fallimento della globalizzazione di mercato: è l’errore drammatico che ha portato a Trump presidente, e alla Brexit. E perseverare – con accanimento ideologico – in quell’errore significa continuare ad alimentare il consenso di chi solo apparentemente è contro il sistema: e cioè correre verso l’abisso di governi di estrema destra anche nell’Europa occidentale, a partire dall’Italia.

Secondo la retorica corrente nel discorso pubblico italiano, l’abbiamo rammentato, stare con chi vince (con i ricchi, con il privilegio, con i padroni…) sarebbe pragmatico; stare dalla parte degli sconfitti (i poveri, i discriminati, i lavoratori) sarebbe ideologico. Invece, sono due ideologie: la prima a difesa dei presunti «dati di fatto» certificati da «esperti» al servizio dello stato delle cose, la seconda fondata su alcuni valori scardinanti. In Italia sono i valori dell’articolo 3 della Costituzione: un’eguaglianza non di opportunità (comunque oggi lontanissima!), ma di condizione finale, «che permetta, a quanti non ottengono grandi ricchezze o posizioni di prestigio, di vivere una vita decente e dignitosa» (Sandel). La necessità di «dare a tutti gli uomini dignità di uomo» (Calamandrei). Si può scegliere tra l’ideologia conservatrice del mercato e quella riformatrice della Costituzione: ma far passare la prima come l’ordine naturale delle cose è solo disonestà intellettuale.


E ora?

Quasi cento anni fa, nel 1926, George Grosz ha dipinto un quadro cha ha chiamato Eclissi di sole.

È una allegoria politica: la rappresentazione dello stato della democrazia tedesca alla vigilia dell’ascesa del nazismo. Tutto si svolge al tavolo del potere: è un ritratto collettivo del governo. Ma i politici, i ministri, sono tutti dipinti senza testa: senza pensiero politico, senza autonomia, senza intelligenza. Senza occhi per vedere lo stato del paese, senza un cervello per leggerlo e per provare a cambiarlo. Sono letteralmente «senza capo»: qualcun altro comanda al posto loro. Chi? Un generale, che ha deposto la sciabola sul tavolo. È un cristiano, ci dice la croce, anch’essa sul tavolo: dunque non sarà poi così cattivo! I tratti del volto e la corona d’alloro ci rivelano che non è un generale qualsiasi, è Paul von Hindenburg: il presidente della Repubblica tedesca, la Repubblica di Weimar. Sarà lui, nel 1933, a nominare cancelliere Adolf Hitler.

Ma il presidente non decide da solo: ha un suggeritore, che gli sta accanto in piedi e gli sussurra all’orecchio. È un banchiere, con il cappello a cilindro, che porta sottobraccio i frutti dell’industria che finanzia: grandi opere, e armi. È lui che comanda sul presidente, che a sua volta comanda su una schiera di politici senza testa.

Sul tavolo del potere c’è anche il popolo: è un asino, accecato dai paraocchi, che si nutre dei giornali asserviti al presidente e al banchiere. Un popolo prigioniero della sua stessa credulità, della sua ignoranza. Sulle poche voci libere, sui pochi dissidenti che da sotto il tavolo provano a rivolgersi all’asino, a svegliarlo, incombono le sbarre del carcere, e una scheletrica morte. Nulla sembra poter salvare il popolo dai suoi stessi capi: dai suoi padroni.

Su tutto incombe l’eclissi di sole, che dà il titolo al quadro. Il sole non diffonde luce perché è oscurato da un grande oggetto rotondo. Cos’è? Un’enorme moneta, con sopra il segno del dollaro: la «buona moneta», l’unico vero dio a cui il banchiere ha consacrato la propria vita. Il potere del capitale ha sostituito ogni altro potere, l’avidità e il profitto governano il mondo.

Pochi anni dopo, nel 1933, un grande economista scriverà: «Questa regola autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle, perché non ci danno alcun dividendo».

Sono parole di John Maynard Keynes: quello stesso Keynes così spesso citato a sproposito nel tentativo di farci credere che, no, oggi in Italia non ci sia alcuna eclissi di Costituzione. Invece quell’eclissi c’è eccome, lo si è visto.

Naturalmente, non è colpa della persona di Mario Draghi: l’inaudita, grottesca, mistificazione che lo ha santificato facendone un pericoloso uomo della Provvidenza esige una puntuale decostruzione, ma non deve indurre nell’errore simmetrico per cui il problema sarebbe rappresentato da una sola persona. Il punto è, invece, che una crisi della democrazia costituzionale venga occultata da uno stato d’eccezione istituzionale rivolto a favorire un blocco di interessi, una oligarchia, una classe dominante. Lo svuotamento e dunque la morte dei partiti, la prevalenza di interessi non mediati e di singole personalità, l’inceppamento dei meccanismi parlamentari e da ultimo la torsione monarchica della presidenza della Repubblica sono conseguenze di una malattia politica che il governo Draghi non può curare, ma anzi prolunga e aggrava difendendo a oltranza il sistema e i suoi privilegi.

In Dalla parte del torto. Per la sinistra che non c’è (Chiarelettere 2020) ho provato a «contribuire alla ricostruzione di un senso comune di rivolta contro lo stato delle cose. Condividere pensieri e parole che aiutino a vedere il mondo “dalla parte del torto”: cioè dalla parte degli sconfitti, dei sommersi, dei

In “Dalla parte del torto. Per la sinistra che non c’è” (Chiarelettere 2020) ho provato a «contribuire alla ricostruzione di un senso comune di rivolta contro lo stato delle cose. Condividere pensieri e parole che aiutino a vedere il mondo “dalla parte del torto”: cioè dalla parte degli sconfitti, dei sommersi, dei poveri». Ciò che è successo all’Italia negli ultimi due anni mi spinge a ritenere che una simile metanoia, cioè un radicale cambiamento del nostro modo di pensare, sia ancora più urgente: perché è divenuta ancora più fitta la notte in cui brancoliamo, e ancora più deboli sono le poche luci che illuminano il cammino di chi non rinuncia a pensieri di umanità.

Sappiamo come finì, dopo l’eclissi di sole dipinta da Grosz. Che oggi l’epilogo sia diverso, dipende soltanto da noi.

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